Degli esili bastoncini color arancio saltellavano di qua e di là come presi da una irrefrenabile pazzia e un liquido denso e giallognolo li avvolgeva, penetrando talvolta all’interno. Alcuni globetti pulsanti intervennero in difesa dei bastoncini risucchiando quell’abominevole macchia di materia ostile e poi, continuando a pulsare come fossero dei cuori ambulanti, scomparvero di scena così rapidamente come erano apparsi.
Tolsi gli occhi dallo schermo affascinato da quelle immagini che rappresentavano una comune reazione allergica ingrandita migliaia di volte e rimasi qualche attimo in silenzio, con lo sguardo fisso verso la parete. Senza dubbio il nuovo microscopio elettronico con schermo gigante a grande definizione costituisce una grossa comodità per lo scienziato moderno; si può restare seduti tranquillamente in poltrona, mentre delle immagini indimenticabili sfilano davanti ai propri occhi. Mi alzai e mi avvicinai all’armadio che avevo sulla destra.
Feci scivolare il pannello metallico con la mano e presi i registri che avevo lasciato all’interno. Alzai di scatto la testa guardando l’orologio che avevo di fronte. Era quasi mezzanotte. Dovevo spegnere le apparecchiature e avviarmi verso casa. Non avevo molta fretta.
Mi ricordai ad un tratto che non avevo esaminato quei frammenti rocciosi che Henry mi aveva portato al ritorno dall’ultima missione esplorativa: dei volgarissimi frammenti grossi quanto un pugno. Bah. Tanto valeva che dessi loro un’occhiata.
Ne presi uno a caso e lo appoggiai sul ripiano metallico. Non pesava molto, anzi era piuttosto leggero. Misi a fuoco lo schermo ruotando delicatamente le manopole che avevo sul pannello frontale. Bastava uno studio alquanto superficiale; regolai l’ingrandimento sul minimo previsto. Scandagliai la superficie dell’oggetto muovendo alcune leve laterali.
Fu a quel punto che vidi quella cosa strana apparire sullo schermo.
Rimasi fermo alcuni secondi non capendo cosa fosse. Poi la guardai meglio. Non capivo più niente. Avevo la mente confusa.
Raggiunsi il telefono che avevo sopra il tavolo e feci il numero di Henry.
Mi rispose poco dopo la sua voce.
“Ciao, Henry, sono Roger…sì, Roger Taylor.”, gli dissi.
“Sei pazzo Taylor, mi ero appena addormentato…”
“Beh, allora vedi di svegliarti; hai presente quei frammenti che mi hai mandato oggi pomeriggio?”
“Vuoi lasciarmi in pace! Cosa hanno quei quattro sassi di tanto particolare da chiamarmi a quest’ora?”
“Credo… credo che sopra ci sia un cadavere.”
(2)
La confusione che regnava nel mio laboratorio presso la Wells-Bohr Company, Florida, quella mattina di Giugno, era indescrivibile. Io ero seduto continuando a mettermi la mano sulla fronte sudata, mentre un coro di domande mi stava assillando da ormai troppo tempo. Due dei miei ricercatori erano già arrivati, Simon e Edgar, e si stavano occupando di controllare per bene tutta la superficie del sasso. Il Direttore del Consiglio delle Ricerche, il Signor Charlie Boss, era venuto di persona a constatare cosa fosse realmente accaduto. Inoltre avevo tra i piedi anche il signor Danny Wike del Miami News e Harrison Lawh del New York Sight che puntualmente vengono a rompere le scatole quando c’è qualche notizia in esclusiva. Il professor Dankashton era l’unico che stava cercando di darmi una mano per non essere soffocato dalle continue e assillanti domande dei giornalisti.
Finalmente Edgar mi venne vicino e disse:
“Signor Taylor, abbiamo perlustrato ogni millimetro quadrato del sasso e non abbiamo trovato altri residui organici”
“OK, Edgar, grazie! Ha telefonato Henry?”, chiesi.
Mi rispose il Direttore.
“Certamente, caro Taylor. Ha detto di riferirvi che la spedizione verso la fascia degli asteroidi è stata felicemente conclusa. Hanno portato con sé il meteoroide!”
“Quando è grande?”, chiesi.
“Non hanno specificato le dimensioni, ma ci assicurano che quei sassi ruotavano proprio attorno ad esso.”
“Bene questa è una bella notizia.”
“Signor Taylor”, continuò il Direttore, “ci può dire effettivamente cosa è successo?”
Nel laboratorio si fece il silenzio più assoluto. Mi guardai attorno e vidi le facce smarrite dei giornalisti e del professor Dankashton.
“OK”, dissi cominciando a parlare lentamente, “il signor Henry Moore è tornato ieri dalla sua consueta missione esplorativa settimanale attraverso tutto il sistema solare”, sorseggiai intanto il caffè che avevo nella tazzina, “e mi ha portato, come di consueto, dei comunissimi campioni di roccia prelevati con l’ausilio dei nuovi aspiratori Hembergh nella fascia degli asteroidi, in prossimità di Vesta.“, terminai di bere il mio caffè. Sollevai gli occhi e continuai a parlare:
“Henry mi disse che quei frammenti orbitavano attorno ad un meteoroide di piccole dimensioni ed io ieri sera ho esaminato uno di quei sassi.”
Mi avvicinai al quadro dei comandi e ruotai alcune manopole dicendo:
“Dopodiché ho visto questa cosa.”
Sullo schermo gigante apparve l’immagine di un essere molto particolare. L’aspetto era vagamente umano. La sua carnagione era biancastra e il suo corpo piuttosto tozzo, diremmo quasi obeso. Era come se si fosse spiaccicato sulla superficie del sasso. I giornalisti guardavano increduli.
“Come… come è morto?”, chiese Wike.
“Beh, penso proprio che qualcuno di noi debba averlo schiacciato con le mani. Del resto come potevamo sapere…”
“Cos’è?”, chiese il professor Dankashton.
“Dovremo studiarlo a fondo. Si tratta di una forma di vita delle dimensioni di circa cinquanta micron. So che sembra assurdo, ma direi che sia piuttosto evoluta, visto che indossa degli abiti niente affatto rudimentali.”, mi fermai un secondo ad annotare questa osservazione sul mio taccuino, poi continuai:
“Il signor Henry Moore è partito questa notte con l’Explorer, per recuperare il meteoroide dal quale crediamo che provenga l’essere che avete appena visto.”
In quel momento squillò il telefono. Andai a rispondere. Intanto gli altri si misero tranquillamente a chiacchierare commentando ciò che avevano appena visto e sentito. Nel momento in cui riappesi il ricevitore, nel laboratorio tornò il silenzio.
“Era Henry!”, dissi felice, “Ha detto che il meteoroide è arrivato; lo stanno trasportando qui per esaminarlo col microscopio.”
Ci furono alcune occhiate incredule dovute all’euforia dell’avvenimento. Bussarono alla porta. Erano i tecnici che preparavano l’arrivo del meteoroide. Dal fondo del corridoio si videro i primi bagliori. Ci affacciammo e vedemmo un’enorme massa rocciosa del diametro di circa due metri che avanzava verso di noi, tenuta in sospensione da alcuni propulsori antigravità. L’effetto dei propulsori dava al masso una colorazione azzurrognola, quasi fosforescente. Entrarono nel laboratorio e li aiutai a sistemare il grosso reperto nella posizione giusta per essere esaminato al microscopio. I propulsori facevano sì che il masso non venisse a contatto con niente, ma risultasse sospeso nello spazio in modo da evitare di “schiacciare” qualsiasi informazione preziosa. Una folla di tecnici, scienziati e curiosi si era radunata davanti alla porta del laboratorio e sbirciava, attirata dal grande trambusto.
Quasi per caso notai che avevano dovuto rompere parte del divisorio per permettere al meteoroide di entrare, ma non me ne curai vista l’eccitazione del momento.
Henry entrò nella sala. Lo accolsi con un sorriso cordiale. Rimasero con noi soltanto i più stretti collaboratori e naturalmente il Direttore.
“Bene”, dissi, “ora inizieremo l’esame del reperto.”
Tenemmo il fiato sospeso per un momento. Sullo schermo apparve un’immagine surreale. Il meteoroide presentava la superficie ricoperta da un’infinità di costruzioni di un materiale sconosciuto. Quella era una città. Si vedevano le vie, strani mezzi di comunicazione, strani parchi ricoperti da una vegetazione dai colori violacei, torri, ponti sotto i quali scorreva un liquido denso e viscoso.
Non c’era però traccia di anima viva.
“E’ fantastico!”, esclamai, “abbiamo davanti a noi un’altra civiltà progredita come la nostra!”
“E… che vediamo soltanto grazie al microscopio.”, aggiunse Henry.
In quel momento entrò una giovane ragazza, bionda, alta e molto attraente. Rimase sbalordita davanti a quelle immagini. Henry si fece avanti e disse:
“Caro Taylor, ti presento la mia più fedele collaboratrice, addetta come me alle missioni esplorative: miss Joanna Lumley!”
“Sono folgorato dalla sua bellezza!”, esclamai stringendole la mano.
“Abbiamo prelevato insieme il meteoroide.”, aggiunse.
“Allora la mia gratitudine è infinita.”
Vidi improvvisamente le facce dei miei amici assumere un’espressione strana; i loro occhi erano fissi ed increduli. Mi voltai e… notai sullo schermo una massa di esseri che avanzava verso il centro di quella che doveva essere una piazza. Probabilmente stavano urlando, visto che si agitavano muovendo la bocca, ma non potevamo certamente udirli.
“Simon!”, urlai, “Collega il microfono direzionale al meteoroide. Lo amplificheremo al massimo.”
“Ma… non potremo comprendere cosa dicono! “, esclamò Joanna.
“Collegheremo il microfono al traduttore computerizzato, lo scarto sarà di soli pochi secondi!”
Mi accorsi che Simon aveva finito. Dagli altoparlanti uscirono dei suoni incomprensibili ed io mi affrettai a mettere in funzione il computer.
“A MORTE GLI STRANIERI!”, tuonò il traduttore.
“RIPORTATECI DOVE CI AVETE PRESO!
RIVOGLIAMO LA LIBERTA’.
IL PIANETA GIUSTO AL POSTO GIUSTO!”
Rimanemmo interdetti. La traduzione che ci veniva offerta dal computer era talmente rappresentativa di quelle immagini da creare un effetto di un realismo impressionante!
Ci voltammo. Danny Wike del Miami News stava sorridendo; quando si accorse che tutti gli sguardi erano puntati su di lui si giustificò:
“Non crederanno di metterci paura?”, continuò a ridere.
“Potremo tenerli come schiavi; ecco… li faremo collaborare con le api!”. La sua risata era diventata fragorosa.
Noncuranti di quelle risa, Simon e Edgar ai quali si era aggiunta pure Bonnie (che come sempre era arrivata in ritardo) si misero al lavoro per conoscere meglio i tratti salienti di quella civiltà sconosciuta.
Sullo schermo si avvicendavano paesaggi naturali e metropoli con tanto di grattacieli e veicoli che sfrecciavano a velocità folle. Poi l’immagine si fermò su di un corteo piuttosto singolare: vi partecipavano persino delle mamme con i loro piccoli. Una di queste si fermò come se ci avesse visto. Il suo bimbo ci guardò fisso ed emise uno strano suono prolungato.
Il traduttore taceva.
“Penso proprio che si tratti di una pernacchia locale.”, commentai.
Simon mi chiamò in disparte.
“Abbiamo esaminato, per quanto possibile, l’essere schiacciato.”
“Che razza di creature sono?”, chiesi.
“Io e Edgar abbiamo una teoria in proposito.”
“Qualche forma che conosciamo?”
“Batteri! Crediamo proprio che si tratti della massima evoluzione possibile di una colonia di batteri.”
“Cosa? Assurdo! Come potrebbero essere così intelligenti?”
“Non conosciamo la loro struttura molecolare, ma potrebbe essere simile a quella dei microchip dei moderni calcolatori!”
“Pensi che potrebbero essere pericolosi?”
“Chi può dirlo?”
“Faremo bene a non sottovalutarli. Fai un’analisi completa, anatomica e biologica.”
“Quella anatomica è praticamente impossibile“, disse con amarezza Simon, ”i resti che abbiamo sul frammento sono insufficienti e… non possiamo certo catturare un altro di quegli esseri. Non sappiamo come reagirebbero i compagni; potrebbero costituire un serio pericolo batteriologico!”
“Hai ragione. Vedete di fare quel che si può.”
Mi allontanai raggiungendo gli altri. Tutti quanti mi indicarono lo schermo all’unisono. Vi indirizzai lo sguardo incuriosito e vidi qualcosa di molto strano: una specie di mandria di batuffoli saltellanti che pascolava beatamente!
Simon e Edgar si avvicinarono, anch’essi attirati da quelle strane forme di vita. I batuffoli salterellavano come se fossero di gomma, mentre una specie di pastore si riposava sotto l’ombra di una pseudo-quercia.
“Un vero scorcio di vita agreste!“, disse Joanna.
“Allevano una razza di batteri non intelligente e se ne servono per il cibo e per il vestiario.”, osservai.
“Era logico aspettarselo.“, intervenne il professor Dankashton.
“Inoltre”, continuò, “avrete sicuramente notato le numerose specie di pseudo-piante ad alto e basso fusto che coltivano per i loro fabbisogni e quegli enormi capannoni in cui producono chissà che cosa.”
“Sono proprio organizzati!”, esclamò il Direttore.
Compresi in quel momento la pericolosità di una siffatta forma di vita.
“Dobbiamo stabilire un contatto audio con gli alieni!”, usai per la prima volta quest’ultima parola. “Simon, collega di nuovo il microfono! Bonnie, manda sulla loro frequenza una richiesta di colloquio!”
Tutti si dettero da fare e in breve riuscimmo a parlare con loro.
Pronunciai lentamente sul microfono:
“Non vogliamo farvi del male. Veniamo in pace!”
“RIDATECI IL NOSTRO POSTO O VE NE PENTIRETE.”, disse il traduttore.
“Lo faremo. Dateci tempo.”, dissi ancora.
Speravo che ciò li avrebbe fermati fintantoché non ottenevo il permesso delle autorità per agire.
“Signor Taylor…”, chiese il Direttore, “avete forse paura di loro?”
“Credo che effettivamente siano molto pericolosi, signor Boss!”, risposi, “Ho bisogno del suo aiuto.”
“Cosa posso fare?”
“Dovrà convincere il consiglio delle Ricerche a trasportare gli alieni su un laboratorio orbitale. Mi sentirei più tranquillo.”
“Ma…”, fece il Direttore, “mi capisce…non sarà facile, comunque farò del mio meglio, non si preoccupi.”
Uscì dal laboratorio.
“Avete scoperto qualcosa?”, chiesi a Edgar.
“Non so se sia importante“, rispose Bonnie, “un esame chimico ha rivelato la presenza di una sostanza sconosciuta in notevole quantità!”
“Studiatela, potrebbe essere nociva per gli esseri umani.”
Telefonai alla direzione per sapere se avevano deciso qualcosa riguardo agli alieni, ma nessuno sapeva nulla. In quel momento mi prese un lieve giramento di testa. Barcollai leggermente.
“Vada a casa, signor Taylor. Ha avuto una giornata stressante. Ci penserò io qui.”, disse gentilmente Bonnie.
“Ma… gli alieni…”
“Non si preoccupi. Fino a prova contraria, non possono abbandonare il pianeta e quindi…non c’è pericolo.”
Ero veramente stanco e pensai che avesse ragione.
(3)
Stavo dormendo profondamente e soavemente, come non facevo da giorni, quando udii lo squillare del mio telefono. A malincuore lasciai le coperte ancora mezzo addormentato e alzai il ricevitore.
“Pronto, casa Taylor?”, sentii dalla cornetta.
“Sì, sono Roger!”, farfugliai.
“Sono Charlie Boss, venga subito in laboratorio. Sono volati via.”
“Cooosa?”
“Gli alieni…se ne sono andati…”
“E dove sono andati?”
“Non lo sappiamo.”
“Arrivo subito. Aspettatemi!”
Mi precipitai al laboratorio a tempo di record. Si trovavano tutti intenti a guardare lo schermo raffigurante il pianeta privo di ogni segno di vita.
“Cosa è successo?”, chiesi.
“Nessuno lo sa. Questa mattina siamo arrivati e gli alieni non c’erano più.”
“Dove possono essere finiti?”
“Più o meno dappertutto. Al posto della porta c’è il grosso buco che abbiamo fatto per far entrare il meteoroide e, poco più in là, una finestra semiaperta.”
“Bravi!”, esclamai con tono di rimprovero.
“Suvvia signor Taylor”, disse Joanna, “come potevamo prevedere che potessero volare via dal micro-pianeta!”
Improvvisamente entrò il Commissario del Dipartimento della Difesa.
“Il signor Taylor?”
“Sono io.”, risposi.
“C’è urgente bisogno di lei nella Sala Radar. Venga! E’ una questione di vitale importanza.”
Il Commissario ci indicò la strada. Entrammo nella sala avvicinandoci ad una grossa apparecchiatura.
“Buon giorno, signor Taylor.”, disse il tecnico addetto.
“Questo è il terminale principale del decodificatore multiplo posto in orbita su circa dodicimila satelliti orbitanti. Con questo costosissimo impianto siamo in grado di avvistare un chicco di grano che si avvicini alla Terra da una distanza ragguardevole. Fino ad ora è stato considerato un apparecchio di scarsa utilità che sperpera il denaro dei contribuenti, ma oggi finalmente ci è stato di grande aiuto.”, si fermò un attimo e poi riprese:
“Abbiamo avvistato una nuvola di navicelle spaziali microscopiche che, lentamente ma inesorabilmente, si stanno avvicinando alla Terra. Saranno migliaia, forse milioni.”
“Sono loro!”, esclamai.
“Loro chi?”, chiese il signor Boss.
“Gli alieni. Chi altri? Vengono a riprendersi i compagni.”
“Ehi, ma quali compagni; se ne sono andati!”
“Sì, ma questi alieni che stanno arrivando probabilmente non lo sanno. Oppure sono stati proprio loro a chiamarli.”
“Ma…come possono sperare di batterci, così piccoli; siamo sicuramente superiori!”
E’ pura illusione, signor Commissario. Le dimensioni microscopiche costituiscono la loro arma più potente. Se le navi spaziali aliene si disseminassero per tutta l’atmosfera, come crede di impedire il loro atterraggio? Vuole forse eliminarle una alla volta? Ci vorrebbero anni e qualcuna di esse riuscirebbe sicuramente a sfuggirci. Allora potrebbero annientarci liberando qualche strana forma di vita a noi sconosciuta. E noi non faremmo in tempo a trovare il vaccino. Essi possono vincere, se solo volessero, e conquistare la Terra.”
Proprio in quell’istante entrò Simon urlando come un forsennato.
“Signor Taylor, signor Taylor…sono morti.”, inspirò profondamente per riprendere fiato, “gli alieni sono tutti morti; non sappiamo perché, erano nel parco, qualcosa deve averli distrutti.”
“Sarà la fine. I loro compagni ci distruggeranno.”
“No! Guardate!”
Sullo schermo si vedeva la nuvola di astronavi che lentamente si stava allontanando dirigendosi verso la fascia degli asteroidi.
“Evviva! Non torneranno più, perché se lo facessero morirebbero!”, esclamò un tecnico.
“Non credo.”, dissi, “Non sanno ancora cosa li ha uccisi, come del resto non lo sappiamo noi, e così non si arrischieranno in una guerra di conquista.”, emisi un lungo sospiro continuando a guardare lo schermo, “Per ora.”